Sono da poco passate le undici di sera, Nel suo atelier di via Monserrato, Lino Frongia mostra la piccola serie delle sue ultime composizioni. Sono quadri piuttosto grandi che pittore con grazia alterna sul cavalletto. Ha le movenze di un cortigiano al servizio del proprio demone. Colpisce l'anello della mano che stringe il bordo della tela che ha adescato il nero.
Vengo inghiottito da una strana ipnosi. Somiglia a una forma di cecità superiore, a una sospensione temporanea del mio corpo. Immagino il vuoto che un dormiente predispone e la regressiva perdita di coscienza che avanza. Anche questa semplificazione dei sensi, mi dico, è un accadere. Appartiene alla stessa scena dei quadri che, invece di essere osservati, per una volta ti guardano. Leggero ottundimento dal quale infine è possibile ripartire. Ecco. Penso ai neri quadri di Frongia come a un punto di partenza. Ma verso quale eclisse essi vanno? La loro decadenza è fuori dal tempo. Il loro avvenire alle spalle.
Talvolta ho ammirato e temuto il nero non come colore, ma condizione dell'anima: lo stato di desolante inquietudine che ti avvolge, l'imminente catastrofe che annuncia la parte più fragile dell'esistenza. Cosi il nero ruba le nostre vite e le restituisce in una cerimonia degli addii. Ma questi quadri, nella durezza artificiale della luce, ne sono solo il risvolto ironico. Ci sono vite al nero e opere al nero. È rischioso perdersi nel colore della disapprovazione. Fu l'ossessione di Poe che nel nero si immerse con l'immodestia alcolica del genio. Caravoggio lo pose al culmine della sua esplosione. Goya intinse la propria mente nell'inchiostro. E Klee, l'ultimo Klee, ne corteggiò gli artigli come un'ombra sfinita. Colore di esperimenti e di svolte. C'è un prima e un dopo il nero. Nel passato di Frongia rivive la tecnico superba, il manierismo dei colori, la staticità delle figure. Pesantezza e grazia a un tempo. Nel presente tutto affonda in questa dissolvenza. Ed è come se un artista abbia per un attimo immaginato di togliersi la vita non per disperazione ma per offrirla alla curiosità del passante.
Il ragazzo, dell'aria ispirata, che beve; la coppia allacciata i cui sguardi non si incontreranno mai; il San Sebastiano in stato d'erezione, sono negativi che rifiniscono il buio e ne svelano l'indifferenza. Privi di passioni, assomigliano a piccole macchine mitologiche che fissano l'immobilità del gesto, prima che la parola irrompa con la propria ebbrezza.
Le opere di Frongia mi appaiono muti esercizi in assenza di dolore. Le due figure carponi - enigmi dal corpo umano avvolti in un'attonita preistoria - sembrano balzare da qualche angolo di una Wunderkammer. Suscitando orrore e meraviglia. Non sarà del tutto incongruo scorgere in questi quadri il resto di un dandismo che all'etica del vestito ha sostituito quella della nudità.
Spogliato dalla sua incombente retorica resta la semplicità spassosa del nero. Kafka - tra i più neri scrittori che il Novecento abbia partorito - nel leggere agli amici capitoli del Processo, pare scoppiasse in risa irrefrenabili.
Solo ora mi assale la mente che c'è un quadro difforme da quest'ilare impressione. Una specie di eccezione. È la severa signora che tiene a balia l'invisibile. Ha lo sguardo altrove rispetto alla postura del corpo. Non è sdegno ma indifferenza. La devota durezza del profilo contrasta con la girandola che le orna la spalla e si innalza all'altezza di una decorazione remota. Come un dettaglio imprevisto, una piccola nostalgia infantile che per un attimo apre il nero ai ricordo.
Ritratto di mia madre, 1992