I due olii su carta della fine degli anni Settanta con cui si apre, al di là della successione adottata nell’allestimento, il ripercorso antologico dedicato all’itinerario artistico di Lino Frongia, artista di classica astrazione che, senza cadute simboliche e senza riferimenti diretti al banale quotidiano, mette in scena da sempre un’olimpica distanza tra rappresentazione e aspettative, dichiarano da subito la stringente continuità con cui si è andata sviluppando la poetica dell’artista e danno anche conto di quanti travisamenti il suo lavoro abbia potuto ingenerare.
È vero, come accennerò più oltre, che il lavoro di Frongia si è andato sviluppando in un humus abbastanza favorevole all’idea di pittura come sistema tradizionale, quasi a far piazza pulita delle estenuanti e svilite ricerche d’Avanguardia pauperista e concettuale, un percorso quindi in sintonia con altri “compagni di strada”.
Ma fin dagli esordi, il suo si è sempre configurato come un tentativo di andare oltre, di spiazzare tutti creando distanze tra sé e il mondo a lui più prossimo. Un lavoro quindi che difficilmente si potesse confrontare e contaminare con i raggiungimenti delle ricerche a lui più vicine.
Tornando quindi agli olii su carta del ’79, è possibile individuare l’universo figurativo, il linguaggio, la tecnica, gli espedienti, la materia infine, che accompagnerà Frongia nell’arco di questi trent’anni di lavoro. Tutto è come rappresentato in uno stato di “sospensione”: quell’uomo che trattiene la pecora inginocchiato con un “vezzoso” stivaletto con gli speroni, quella prorompente scala che entra come una meteora nel campo visivo, stilobate o crepidoma di un tempio negato ma, contemporaneamente, pura e semplice rampa teatrale, così come quel ritrarsi “solitario” della figura distesa, appena turbata dall’incombenza di un albero totem, forse isolata su un lembo di terra, forse naufraga su un’isola, o forse su un suolo artificiale, o un magico tappeto, che assiste, incurante, alla presenza inquietante di un’altra pecora, distesa di schiena, di cui non è dato sapere, anche per l’esasperazione e l’ingigantimento della propria ombra, se stia precipitando in un vuoto abissale o semplicemente immergendosi, in quella strana giacitura, in quel cosmico vibrare che trapassa dalle nubi alla terra. Da quelle ricerche aurorali sembra prendere avvio l’unitaria poetica di Frongia che trova nella definizione dei propri temi, nella unicità delle scelte figurative e nella molteplicità delle declinazioni, una stringente continuità identitaria da cui l’artista non si scosterà mai. Il rapporto tra natura e artificio, tra corpo e mente, infine tra ragione e sentimento, sembra porsi come filo rosso di continuità dello sviluppo della poetica dell’autore e, per sottolinearlo, l’artista ricorre ad alcune sorprendenti scelte formali, quali la ricercata ambiguità di una precisa collocazione del piano di posa delle sue figure o dei suoi oggetti rappresentati. Così come ricorre allo stridente accostamento tra cose apparentemente antitetiche quasi ad evocare una ricercata casualità se non un azzardato “colpo di dadi”, sino a contrapporre un’asciuttezza ed una stringatezza montaliana, la riduzione al minimo necessario, facendola scontrare con gli eccessi del preziosismo e della ridondanza. Dai sui esordi ad oggi, l’artista continua a immaginare la scena ideale delle proprie rappresentazioni in una condizione di pura “precipitazione”, in una innaturalità, nonostante le ossessive e ricorrenti presenze di elementi naturali, alberi, macigni, arbusti o fiori, dove tutto può accadere ma in una precisa idea di spazialità definita attraverso “occlusioni” e “limitazioni”, per arginare gli eccessi della stessa spazialità nel suo darsi come smisuratamente grande, ambiguamente indefinita o indecifrabile.
La presenza reiterata di quinte teatrali, inquietanti neri che entrano prepotentemente nel campo visivo, ma anche rappacificanti specchi che obliquamente inseriti moltiplicano l’indefinito piano di posa su cui sono ordinatamente imbanditi pesci replicati in una esibita coazione a ripetere, sottolineano la ricercata artificialità della rappresentazione.
Così come il ricorso continuo alla siepe/sipario, che così sovente fa la propria comparsa, come nell’opera della donna seminascosta dallo schienale del seggiolone o nell’uomo inginocchiato che per “trasmigrazione” assume un incarnato di una tonalità e di un cangiantismo baroccesco, proprio ad indicare un legame indissolubile con la densità perlacea dei fiori che punteggiano la siepe/quinta. Anche la vertigine visiva diventa elemento di costruzione della rappresentazione sempre protesa a creare circuiti collassati tra aspettative e realtà dell’immagine, si pensi all’obliqua vertiginosità del grande suolo artificiale costruito disteso in una esasperata distorsione visiva dal sotto in su, in cui alle finestre, scorciate dal basso, alternativamente accese e spente, fa da contrappunto l’anomalia dei lampadari, intesi come improvvise e scintillanti folgorazioni se non puntiformi scoppiettii di
luce, appesi nella giusta giacitura, o l’inquietante squarcio di cielo che si apre nella materia stessa della costruzione a dar corpo, misura e figura a quell’albero altrimenti indefinibile, che probabilmente ed erroneamente avrebbe teso, diversamente, a trasfigurarsi in archetipo sironiano. Tra lo smisuratamente piccolo della resa dell’albero nella stessa opera e l’esasperazione dimensionale dell’animale che campeggia nel vuoto incolmabile di quella vertigine, si colloca la ricerca dell’autore di quei continui piazzamenti, di quegli sbilanciamenti, di quegli incidenti visivi in cui anche i dimensionamenti delle cose, degli oggetti, possono sollecitare quelle bellezze impreviste nell’ambiguità delle immagini, negli stridenti episodi di una linea antigraziosa per giungere alla quale l’apparente trasmutazione alchemica della materia può contribuire. Si pensi a quegli ibridi pesci/giocattolo, ma guizzanti nella loro improbabile metallicità, su cui poggiano le delicate teste dei due bimbi accomunati dalla magnificenza traslucida del drappo bianco o alle forbici troppo grandi del sarto, o a quei massi/colli abitati da muti spettatori alati nella sontuosità delle loro accensioni rossastre delle piume, che assistono indifferenti all’incidente di percorso del carro. Ma lo sbilanciamento dimensionale provoca quel collasso visivo per cui è difficile immaginare una naturalità rappacificata e rappacificante in ciò che vediamo: la pala dell’escavatrice sicuramente non può avere un corpo/macchina contenuto in quella tenda pierfrancescana. È allora la disattesa delle aspettative il continuo sforzo che l’autore ci impone sorprendendoci comunque e costringendoci sempre a pensare ad un altrove: le apparizioni non sono tali eppure sono sempre le stesse ma declinate secondo una volontà di non crear mai assuefazione. Dagli scafi bianchi all’orizzonte, mai abitati e che pochi mari devono aver solcato, alle più prosaiche presenze quotidiane quali un voluttuoso dolce abbandonato il cui grado di elaborazione viene stemperato dall’inquietante e asettico incrociarsi di ossa/relitti, tutto parla della ricerca di uno stridore perseguito non in nome di una metafisica compresenza di oggetti monumentalizzati pur nella loro dimensione di esibita ovvietà, ma della ricerca di un loro porsi come oggetti inquieti pronti a sollecitare le nostre peregrinazioni mentali, i nostri labirintici percorsi senza condurci mai e senza farci intravedere la possibilità di un approdo consolatorio. Anche le poche e rare comparse di presenze più acquietanti, come una puntiforme sequenza di fiori alla ribalta, o gli alberi totem dietro cui un corpo femminile disteso sembra trovare pace, o gli squarci di luce che punteggiano il fondale su cui si staglia il precipitare della donna che sta scendendo le scale, così come i crepacci, tra gli elementi più naturalistici che di tanto in tanto intaccano la compattezza di un muro o di un piano di calpestio, sembrano serbare per poco la loro funzione tranquillizzante e pacificatoria, poiché, immediatamente, a tenerci allertati, subentrano quei pochi elementi che ci invitano a restare desti e vigili. A questo, infatti, sembra alludere il continuo “tutto scorrere”, come colata lavica o fiume in piena, che frequentemente rende instabili i luoghi della rappresentazione, il ricorso a “limiti”, “recinti” e “argini” tesi a circoscrivere come un mandala ricorrente, specie nelle opere più recenti, l’indefinitezza della resa pittorica contrapposta al preziosismo civettuolo di una scarpa lussureggiante, infine quel continuo contrapporre la modernità, la contemporaneità dei dati di partenza, delle presenze, siano figure o oggetti, ad una naturalissima arcaicità come compresenza millenaria ineliminabile di oggetti che nella loro fissità da archetipo non potranno mai mutare: un tavolo/mensa che nasconde e rivela così come il ramo dell’autoritratto che inibisce la percezione degli occhi, un bastone per sostenere il cammino, una stampella appoggiata ad una roccia mentre l’uomo si disegna un altro occhio sulla fronte, sopra quello reale.
Frongia ricerca nei trascorsi biografici un tempo della memoria profonda, ricco di rimandi al presente e parallelamente fondato sulla forza dell’intuizione, tempo che produce una vaga atmosfera narrativa per dileguarsi a favore di effetti immaginifici, dai quali traspare sia l’orgoglio di una matrice accademica che la rivendicazione di una personale e matura liberazione da essa nell’esplicita dicotomia tematica e figurativa. Coesistenza bipolare che sottostà ad una sorta di horror et amor vacui, in cui il ricorso a tecniche come lo spiazzamento degli oggetti e delle figure e l’effetto di straniamento complessivo, conducono alla dissociazione, alla discontinuità, ribadendo e convalidando l’impossibilità di confronto tra le scelte iconografiche e tematiche dell’autore, a costituire un suo tratto specifico. Quello che appare, dall’opera di Lino Frongia, è un vertiginoso verticalismo, in cui le rappresentazioni incalzano senza un fermo immagine.
Seguendo la modalità di azione delle figure, visioni alterne tra monumentalità e ieraticità, si accentua la vicinanza all’esplicito cupio dissolvi, allusione ad una loro precisa predisposizione a sottrarsi rapidamente, a scorrere fugacemente il campo ristretto dell’opera, come si trattasse di fotogrammi discreti, ciascuno valorizzato nel proprio valore autonomo dalla sottrazione alla logica della sequenza. Questo, assieme allo smisurato vuoto dei paesaggi e alla prevalenza dell’assenza, conferisce alle figure ritratte un eccesso di evidenza che riporta all’ipotiposi dell’immagine attraverso l’eccesso di avanzamento verso la ribalta visiva di memoria caravaggesca.
L’artista tende dunque a strutturare la realtà rappresentata avvalendosi della tecnica scenografica, tecnica che per sua natura si fonda sull’artificialità. La figurazione, sia essa di massi, alberi, muretti può o deve seguire le regole ed i metodi della tradizione teatrale, in cui velocità, economia e praticità divengono elementi primari nella determinazione dei contesti, al fine di nascondere l’abbacinante bianco del travertino attraverso le tecniche di “rimbambimento”. Di questa figurazione teatrale, l’artista è l’aedo e bardo di una immagine rinnovata. È colui che rimodella i sogni e gli incubi in virtù di nuovi saperi tecnici ed espressivi, nei quali trovano fusione la memoria della grande tradizione veneta cinquecentesca fatta di sapienti orchestrazioni dei contrasti luminosi, dimensione tonale del “navigar pittoresco”, e gli azzardati cangiantismi dei rosa e dei grigi appaiati ai rossi, agli azzurri ed alle tinte acide dei verdi, testimoni di un gusto per la decisa forza timbrica, instaurando rapporti contrastati ed ambivalenti. Così il corpus delle figure indagate, legate inevitabilmente nell’unica sorte, soggiacciono al freddo destino di un’eterna precarietà, dove l’immagine/arte perde il suo carattere di visione immutabile ed immortale per enunciare una teofania dell’attimo fuggente, che può solo assistere all’affiorare delle visioni come anime perse, prive di riferimenti, prive di elementi invarianti in grado di conferire loro identità attraverso la possibilità di rispecchiamento nell’altro come fissità. Quello che l’artista mostra, in un crudo accostamento, è la relazione tra la solida consapevolezza delle figure e la fragilità insita nell’inconsistenza solitaria delle presenze straniate, incolmabile distanza che intercorre tra il virtuosismo pittorico destinato alla rappresentazione e la marginalità delle semplici presenze viste come comparse sostituibili: un albero, un bosco, un illogico lampadario perdono forza all’interno di un contesto troppo deciso, troppo ingombrante per permettere alla loro blanda evanescenza di farle divenire soggetto o punto di confronto all’interno dell’opera. Un’antigraziosa ibridazione di compresenze ravvisata fin dai tempi in cui l’artista tatuava gli abiti dei suoi personaggi con veri e propri mandala elementari, con una coazione a ripetere davvero in contrasto con la sontuosità dei cangiantismi dispiegati dalla resa di quelle rappresentazioni.
Nasce dunque una poetica che si evolve e materializza nella forma; nell’obliquità delle linee scoscese, nell’ansia dei tagli diagonali, nella forza delle linee spezzate che portano a identificare l’ambito della visione come elemento altro, lontano da sè. Una pittura senza tempo, come Federico Zeri ebbe a dire a proposito di Scipione Pulzone, in cui il ricorso alle innumerevoli distorsioni prospettiche, alle diagonali profonde che invitano ad entrare rapidamente nell’opera, alle deformazioni artificiali degli elementi, come tronchi, muretti, oggetti generici, fino ad arrivare alla messa in discussione della stessa linea d’orizzonte, elemento primario di contestualizzazione, gettano le figure in una sorta di sospensione nello spazio della rappresentazione, come se l’artista volesse alludere ad una realtà altra, una realtà irreale. È forse per questo che nelle opere di Frongia i personaggi rimandano maggiormente all’idea di se stessi che alla reale attenzione fisiognomica, come se il soggetto dovesse essere svuotato delle sue caratteristiche, dei suoi elementi connotativi, per divenire oggetto passivo, marionetta confacente a qualsiasi messa in scena, adattabile ad ogni situazione in virtù di una mancanza, in virtù dell’assenza del sè. Non ci sono gesti accomunanti, perchè non c’è dialogo, non c’e rapporto che possa essere differente da quello instaurabile tra il carnefice e la sua vittima, perchè non c’è naturalezza che non sia simulata attraverso visioni automatiche. Prevale la tendenza al rifugio nella meccanicità, alla scoperta disillusa di determinati meccanismi oramai svelati, al gusto per la dissoluzione dell’apparizione, in un insieme di elementi che non attenua la spinta verso un’affermazione del sé, ma al contrario cerca una via di uscita per quelle figure che comunque sono destinate a restare delle mute comparse. I loro gesti, le loro pose volte a cercare nella fisicità posturale l’affermazione artefatta di un’identità, non riusciranno a togliere queste figure dall’imbarazzo del loro narcisismo vuoto e corporeo, un narcisismo sensuale già morto nell’inadeguatezza dei corpi troppo fasciati, troppo ristretti.
È così che in Frongia il materiale poetico affiora sulla superficie del quadro con una spinta propulsiva che inonda i labirinti della ragione, facendo rimanere le domande sul significato di queste visioni senza risposta certa, senza conclusione. Egli non dice né spiega se l’enigma abbia un senso, perchè il senso come la visione vive di per sé. Due donne al sole, fra sabbia e sassi, proliferazione nella pluralità di valenze, di significati difficilmente accessibili: possono essere presenze del luogo, della terra o della roccia, oppure semplici manichini in posa insensibili alla calura estiva forti della loro assenza di vita. Tutti gli oggetti/personaggi svolgono così, nell’economia della tela (teatro di incomprese azioni), un ruolo fondamentale nella narrazione di vicende e condizioni, in assonanza rispetto ad un lontano passato che si ripete dietro antiche scuole novecentiste, romane, ferraresi, venete, lombarde e, con qualche dubbio, toscane, verso la particolare sensibilità del fare “figura”. Il Novecento che, nello stesso modo in cui si è imposto, subisce un’azione di manipolazione e rielaborazione del tutto analoga a quella che caratterizza il citazionismo: basti prendere ad esempio a Donghi, a Cagnaccio di San Pietro, a Ferrazzi, alla nuova oggettività, così come alla nuova figurazione degli anni Settanta.
Al pari dei tanti esiti, certi ed incerti, delle ultime tendenze figurative, anche la poetica di Lino Frongia si allontana dalla scelta di un’iconografia generale che privilegia un approccio alla pittura come nuova esperienza imagopoietica, visione e rivelazione di icone rinnovatesi, strutturando nel tempo la base di un processo creativo come caratteristica della dimensione mistico-estetica. Allontanandosi dal vivere quotidiano, quasi come sottoposta ad un inspiegabile stato allucinatorio, l’immagine finta si forma sulla falsa riga dell’immagine vera, evidenziando sin dal principio la paradossalità dalla quale prende forma, la paradossalità che la vede affermarsi come finzione fortemente legata agli attributi della realtà. L’immagine diviene un tutto di per sé al di là di quello che non è, in una definizione che è per forza di cose incoerente e comunque non può non esimersi dalla forza propulsiva di una perentorietà.
A prevalere su tutto è la natura enigmatica dell’icona; avventura onirica, sfinge che maligna pone domande sulla fragilità del reale. Attraverso la distorsione della forma si assiste alla messa in discussione del mondo; la sua assenza o la sua alterazione incidono così violentemente sulla sostanza delle cose, da stravolgerne la conoscenza o la possibilità identificatoria. Chi è il ragazzo che eroicamente lancia la fionda, giovane Davide senza un Golia? E cosa è l’androgina presenza ricca di riferimenti al mondo del sacro, sommatoria blasfema che sembra benedirci nella sua deformità manifesta?
L’immagine, in questo teatro distorto, è visione rivelata e rivelatrice, che lascia latente la lettura iconico-storica dietro una prima facciata, come frutto e diffusione della tematica anacronistica, per trovare tuttavia una forza vitale ed una strada che conduce ad una esperienza personale tutta nuova.
Combinando la naturale sensibilità intellettiva ai frammenti del proprio vissuto, tra la terra d’Emilia e quella di Romagna, l’opera di Lino Frongia afferma con decisione il suo carattere autobiografico. Autobiografia ripercorsa come pretesto, base sulla quale montare la sceneggiatura di una recita anaffettiva, svuotata, spersonalizzata; pretesa più per rivendicarne la mancanza che per confermare l’indispensabilità della presenza. In questa storia i personaggi si trovano spaesati nell’incapacità di esprimere azioni e gesti personali; quello che rimane è la ricerca da parte dell’autore di un processo generalizzante in grado di mostrare come tutto possa essere filtrato, decantato, e come la totalità dell’esperienza possa diventare storia fuori dalle storie, vita personale che sfocia nel vuoto umano. È per questo che le “presenze incoscienti” evitano d’incrociare il loro sguardo con quello dei propri simili allo stesso modo in cui i gruppi di donne si addensano ignare di un possibile contatto, senza comprendere la loro nell’altrui necessità. In queste raffigurazioni non c’è identità e dunque non esiste storia. Non hanno storia gli uomini che si stagliano su orizzonti desolati, né la donna dai seni scoperti che ci guarda da oltre la staccionata, figura al tempo stesso sacra e profana, antica Maddalena penitente e moderna mercenaria d’amore. Donna privata del “sé” per delineare i comuni tratti della figura femminile, pretesto per l’analisi più generica del femmineo come indagine sulla sua natura bivalente tra l’etereo ed il demoniaco. Ricerca che trova conferma nella riproposizione della medesima donna, quella dietro la staccionata, collocata su un carro dal quale si erge “eroina battagliera”, strano gioco di bilocazione in cui la perdita di univocità della figura umana corrisponde alla perdita di valore del e nel paesaggio; perdita che, unita allo smarrimento del concetto di ora e di tempo, accentua un senso di straniamento e di non definizione, nella bergsoniana impalpabile dimensione narrativa.
Lasciando in sospeso l’antinomia benjaminiana tra narrazione e romanzo, Frongia struttura il suo approccio poetico sulla positività dell’immagine che si riduce ad un frammento lirico della narrazione; poche linee per definire lo spazio e tre colori per dare senso alla composizione, mezzi scelti tra semplici ed indispensabili strumenti a costituire una monumentale dignità come frutto di una complessa azione di metabolizzazione. La sua arte non è dunque illustrazione, è possibilità concreta di cristallizzare il flusso narrativo della visione in una manifestazione parlante, è enigma complesso, e non semplice narrazione facilmente esauribile e consumabile. L’arte di Lino Frongia è decisione di autonomia, autonomia che lo spinge a distanziarsi nettamente dalle convenzionali espressioni figurative che dall’inizio del Novecento trovano vie alternative alle emergenti tendenze stimolate dall’Avanguardia astratta. La sua ricerca non ignora le strade già battute in precedenza, al contrario le esplora in accorta tangenza, le tocca senza entrare mai nel merito, le sfugge, trasformando i ricordi del passato in materia nuova, lontana, distante, decisamente assente.
Lino Frongia, oggi, dopo intervalli di meditativa autosospensione, come spesso si è riservato nel corso del suo itinerario artistico, si ridesta in una sorta di furor poetico che azzera le visioni stereotipe del sogno inteso nel senso della vulgata surreale fonte di tante ambiguità creative, generatrice di semplici ed inquietanti mostri non perché col sonno-sogno hanno perso la ragione ma semmai perché l’hanno proposta sotto le mentite spoglie di un narcisismo autoerotico e giaculatorio come quello per intenderci del peggior Dalì. Prendendo le distanze proprio da questo schema barocco ed esuberante ed anche dalle tentazioni novecentiste che pure a tratti coinvolgevano il suo mondo visionario, Frongia recupera e sviluppa quegli accenni di work in progress che hanno raggiunto inevitabilmente una sintesi fra testo e contesto e che si evidenzia soprattutto in alcune delle più recenti opere.
La riduzione infatti della teatralità intesa, come dicevamo, come scena, va a vantaggio del testo ovvero dell’immagine tou-court proprio perché riduce il contesto, che inevitabilmente è scena, palco, stage, luogo del racconto, luogo a pro-cedere, ad un impalpabile sedimento dove il fatto sussiste ed affonda nello stesso tempo. Quindi la sintesi fra testo e contesto è simbiosi perché le immagini vi affondano ma non ne vengono sommerse, anzi, vivono del loro substrato creando una immagine che è al limite del vissuto onirico e della visione estatica. A differenza della visione estatica tuttavia essa perde di limpidezza se con questa si vuol dire che si accede ad una illuminazione teofanica perché è l’inquieto vivere che affiora prepotentemente trasformando la teofania nell’oggetto del perturbante. E l’inquieto permane proprio perché, a differenza della mistica, non si avvale di un simbolo riconoscibile e del numinoso trasmette solo la forza di suggestione, ovvero, quello che rimane dopo aver sottoposto gli stessi simboli ad una decantazione agnostica che li distrugge nel loro significato ipotetico per riaffermarli invece nella certezza del proprio vissuto mentale. Così nelle opere che potremmo definire segnate dalla presenza della pecora come icona rappresentata , questa non è il capro biblico o, se si vuole, anche quello demonico dell’Apocalisse, né il vello d’oro di Giasone, ambedue presenti nella vulgata simbolico enciclopedica occidentale, ma un protagonista “eccezionale” apparso alle soglie della coscienza da un dove ed un quando di incerta ma personale germinazione: i simboli quindi, per Frongia, al pari della partenogenesi per rigenerarsi non hanno bisogno del seme vivificante della tradizione ma affiorano alla coscienza del visibile in uno stadio paradossale di parvenza-riesumazione, come avviene nell’opera in cui il corpo dell’animale in ombra scura campeggia sopra i lucernari di una notte indefinita (ah! la tragica notte). In questo come in altri la figura vive nell’alveo della superficie dipinta che è squarcio traumatico ma anche tessuto di contenimento al prorompere della stessa immagine.
Tutto questo perché Frongia ha intuito come il passato della icona possa essere sfoltito a favore di una immagine pura e fluida che affonda nella inconsistenza materica della memoria.
Siamo tentati quasi di dire che senza questa perentorietà l’immagine perderebbe anche i suoi connotati visionari ed allora si potrebbe ricadere nella pura e semplice figurazione.
Ma la memoria non è la ricerca del tempo perduto né di quello catalogato perché Frongia ha imparato a saper controllare gli accenni autobiografici forieri di un possibile maldestro narcisismo. Certo possiamo chiederci se e quando l’immagine possa aver a che fare con il proprio vissuto e se questo si possa configurare sempre in un racconto od in una autodenuncia delle proprie debolezze. Ma in queste opere ciò che colpisce è proprio la volontà di una non facile decifrazione. Ecco che allora le immagini scorrono pesantileggere, dolci ed allarmanti: l’uomo che si aggiunge o si dipinge un altro occhio con la sinistra stampella accanto; la discesa di quell’ombra dai multipli seni (un’omaggio alla negritude?), su un corpo bianco, quasi di seta, dipinto ancora dalla evidente polimastia e la conturbante androginia.
E chi è quella donna dietro gli alberi, tra polmoni appesi, o quell’altra, in turchese, che cade nel tranello della parete turchese. In tutte queste opere c’è qualcosa che ci spiazza e ci esalta perché accade in un tempo ed in uno spazio che l’artista si ostinerà a non farci mai decifrare.