Il nero, l'oscuro, il tenebroso sono espressioni diverse, anche se affini, di una fenomenologia complessa, che ruota, semanticamente, attorno a due temi: l'assorbimento e la sottrazione della luce. Non c'è coincidenza fra le due cose, ma ci può essere sovrapposizione dell'una all'altra: la luce può esserci sottratta dall'interposizione di un corpo che oscura la sorgente dalla quale proviene, come nell'eclissi, ma il suo assorbimento senza restituzione da parte di una superficie che non la riflette ce ne priva ugualmente, anche se in modo diverso e per un diverso motivo. Tuttavia, sappiamo bene che le cose esistono anche senza la luce che le illumina: la luce si limita a far apparire le cose. Il buio, pertanto, può, tutt'al più, nasconderle, non annullarle. Eppure c'è una cosa che non si limita ad apparire, in virtù della luce, e che non viene semplicemente celata dal calar delle tenebre: questa cosa è l'apparire stesso. Il buio non fa solo sparire le cose, avvolgendole nel suo manto impenetrabile alta vista, occultandole sotto l'ala corvina della propria ombra: buio annulla l'apparire delle cose, quella cosa tra le cose che è la píù impalpabile e impercettibile: noi vediamo le cose, non il loro apparire; entriamo in contatto con le cose, non con il loro apparire; proviamo piacere e attrazione per le cose, non per il loro apparire. Eppure, quando questa cosa tra le cose - la più inafferrabile e la meno evidente, quella che, per definizione, non dà nell'occhio, perché consente alle altre di farlo, quella che più di tutte sta sotto il nostro sguardo e ciò nonostante non viene vista, quella che non è mai a fuoco perché è il "luogo" o l'ambito di ogni possibile messa a fuoco -, quando questa cosa che è l'apparire, insomma, sparisce, tutto il resto, per noi, viene meno. O è come se venisse meno. Ma appunto, "per noi" o "come se". Nel divario cui espressioni di tal fatta alludono e che distingue l'apparire delle cose dalle cose stesse, dalla loro concreta e reale esistenza, si apre lo spazio di una divaricazione fra ciò che è "per noi" e ciò che non lo è, fra ciò che appare e ciò che non può apparire, perché sta oltre o al di là dell'apparire e rispetto al quale l'apparire svolge, dunque, una funzione opposta a quella che sembrerebbe destinato ad assolvere,perché, interponendosi, copre e sottrae alla vista, non svela. Ecco, allora, che quando scompare ciò che, facendo apparire le cose, ne occulta la realtà profonda e inapparente (quella che un tempo si chiamava "essenza"), quando, in altri termini, scompare l'apparire delle cose (si spegne la luce, scende il buio), sembra finalmente emergere la possibilità di vedere oltre di esso, ossia di rendere afferrabile proprio quella realtà, essenzialmente celata perché essenziale, che l'apparire, mostrandone il volto manifesto, in effetti e a ben guardare, più propriamente nasconde.
Questa realtà, d'altra parte, non è, com'è ovvio, la semplice realtà che la luce, quando torna, fa riemergere dal buio. La realtà che riemerge dal buio è la realtà che appare e che può apparire; la realtà che diventa invece accessibile solo con il buio è, come abbiamo detto, una realtà che non può apparire. Essa, dunque, nel buio, non appare cosi come l'altra appare alla luce: ha bisogno di essere mostrata, indicata, allusa, espressa, interpretata. Anche se il pensiero ha sempre cercato di penetrare questo enigma con i suoi strumenti, esso ha dovuto, alta fine, arrendersi: il tramonto della metafisica è, per lo stesso pensiero filosofico che si crede giunto ad afferrare il senso della propria parabola, un "via libera" all'arte e ai suoi superiori mezzi espressivi. La realtà che si vede nel buio, che rappresenta l'essenza più segreta e riposta delle cose, non può essere mostrata andando "oltre" le cose, ma piuttosto facendole apparire sotto una luce diversa ed inconsueta, capace di esporle al riverbero di un senso sconosciuto: lo stesso che risuona attraverso i loro nomi quando essi vengono pronunciati come se nessuno li avesse mai uditi prima. Tutto ciò può riuscire solo all'arte. All'arte o ad un pensiero che si pretenda "poetante".
In questo modo, l'arte subentra alla metafisica e la sostituisce. Tutta l'arte, in quanto tale (non solo De Chirco e la tendenza che in lui riconosce il suo alfiere e non solo la pittura, come tale), è,quindi, per ciò stesso, arte metafisica. Da questo punto di vista, catalogare come un'espressione di postmodernità il "ritorno al figurativo" che caratterizza alcuni stili e linguaggi pittorici contemporanei è frutto di un sostanziale equivoco: se l'unico senso che si può attribuire al concetto di "postmodernità" è quello rappresentato dall'idea che con il tramonto del tema del "moderno" (e con quello dei correlati motivi del "progresso" e della "progressività" della storia) viene meno l'ultimo rifugio di un pensiero che cerca l'essenza, oggettiva e nascosta, delle cose - quell'intima verità che conferisce ad esse, e al loro svolgersi nel tempo un significato risolutivo ed innegabile -, allora l'unica arte postmoderna, ammesso che ci sia o che ci possa essere un'arte del genere, sarebbe quella che non mira a "svelare" alcunché. Ma la figurazione svela, poiché mostra un volto delle cose inusuale e conturbante; quel volto che è come il buio per la visione degli occhi: occultando il consueto, suggerisce e lascia trapelare qualcosa che normalmente non si vede e che proprio per questo sí impone con fascino dell'autentico.
È così che crescono e maturano le cose: passo dopo passo. Allo stesso modo, anche questo discorso è cresciuto gradualmente, fino al punto di lasciare intravvedere un tema verso il quale, all'inizio, nessuno avrebbe potuto supporre che si sarebbe indirizzato: il legame che sussiste fra il buio e l'arte. Questo legame sta nell'essenza svelante dell'arte che è la stessa essenza svelante del buio. Ma il buio, che nasce dalla sottrazione della luce, può avere una doppia origine. Può derivare dall'interdizione della luce, che genera l'ombra, oppure dal suo assorbimento. L'arte ha sempre svelato, ricorrendo al dosaggio di luce ed ombra, alla tecnica del chiaroscuro, al colore e al suo modo di attraversare la forma, impregnandola di sfumature e tonalità. È possibile, si può pensare che essa sveli, assorbendo la luce e trattenendola dentro di sé? Che giunga a svelare impedendo alla luce di emergere, costringendola a ritrarsi dalla soglia dell'immagine e permettendo a quest'ultima di scaturire solo attraverso un esercizio, percettivamente acrobatico, di dissimulazione? E se questo fosse possibile, che cosa svelerebbe una simile arte? Svelerebbe qualcosa di occulto, di meta-fisico, oppure non svelerebbe che questo: che lo svelare è un sogno, che il buio non può mostrare nulla di più significativo di quanto esso confonde e di quanto l'apparire rivela; che la forma, perciò, nasconde solo un'altra forma, come in un gioco di scatole cinesi, e che il senso dell'enigma consiste nel semplice piacere di contemplarlo?
Mauro Visentin
Muti esercizi in assenza di dolore, 2005