Tra le esperienze più complesse, radicali e difficili della pittura italiana dell’ultimo trentennio (un tempo sufficiente per un riposato benché arduo giudizio) è quella ancora esoterica e clandestina di Lino Frongia.
Se ne conoscono i virtuosismi che gli hanno portato una facile e prevedibile ammirazione: le mirabili, calde (mai meccaniche) copie di maestri antichi, la originale produzione neoclassica per Gianni Versace (vedi su Sotheby's). A giudicare da queste prove, il più grande pittore antico vivente. Interrogati, i suoi colleghi d’Accademia lo ricordano come un mago. Ci sono poi i suoi folgoranti esordi agli inizi degli Anni Ottanta sotto la colta tutela di Plinio De Martiis e l’appassionata seduzione di Netta Vespignani. Sono gli anni in cui, reagendo a un cervellotico citazionismo (impropriamente detto “pittura colta”), Plinio alleva pittori veri e, domesticamente, visionari: Stefano Di Stasio, neobarocco, e, più concettosa, Paola Gandolfi, per poi concentrarsi sui disarmati poeti del quotidiano, di un inquieto quotidiano,tra periferie urbane, borghi remoti e campagne padane, Franco Piruca, Maurizio Ligas, Aurelio Bulzatti, Lino Frongia. Fra questi, il più fragrante, nell’assoluta semplicità dei soggetti è Aurelio, il più dotato è Lino. Fin da quei giorni Frongia cercherà di scontare il suo peccato originale, di non farsi chiudere nell’angolo del virtuoso, pure esercitandosi nei più begli incarnati che la pittura italiana ricordi dopo Stefano Fiorentino, Correggio, Pietro Longhi. Ai pochissimi intendenti non sfugge questa poesia istintiva, questa aura. Ma i tempi sono ingrati, e tra falsi realisti, realisti, iper-realisti, neo figurativi, neosimbolisti, accademici, imitatori senza vita, Frongia viene spesso frainteso; e, tanto più, cerca di smarcarsi dal rischio di essere scambiato per un figurativo di superficie, o per un illustratore.
Per ciò che lo riguarda, nel campo della grande pittura egli sta dalla parte di Bellini, non di Carpaccio; e predilige Piero di Cosimo a Pinturicchio e anche a Botticelli. Gli ripugnano i Preraffaelliti come i Nazareni e l’estetica neorinascimentale di John Ruskin. Gli interessa Piero della Francesca, e la sua estensione novecentesca che è Morandi. Ma in nessun momento la sua pittura replica, riproduce, cita pitture precedenti.
C’è in Frongia un istintivo classicismo, una vocazione apollinea continuamente contrastata da una pulsione dionisiaca. Il suo è un paradiso irraggiungibile. Non si può rinunciare a dipingere, come ha fatto Antonio López García (e parallelamente, in Letteratura, un altro esempio di rinuncia è j.D. Salynger) perché non si può far meglio e di più di Raffaello, Tiziano, Velazquez. Ma si può andare oltre. Si può dipingere la realtà della coscienza dopo Freud. Rispetto a ogni suo contemporaneo, anche bravo, anche impegnato, anche innamorato della pittura, come Di Stasio, o come Mariani, Frongia ha una urgenza che rende anche i soggetti più difficili e ingrati necessari.
Non c’è artificio, non c’è ideologia, non ci sono teoremi da dimostrare, come nelle opere recenti del suo amico Bulzatti.
Frongia fa galleggiare sulla mostruosa abilità pittorica l’urgenza della sua visione, sia nelle opere più composte, o apparentemente più tradizionali, come i ritratti dei famigliari, dei genitori, del fratello, sia in quelle in cui libera le sue ossessioni: è il caso, tra gli altri, dell’Autoritratto travisato con maschera, pennelli, pistola e cane. Il mondo contadino e pastorale sardo riaffiora nelle pecore, asini, cavalli e porceddi che appaiono davanti a un osservatore blu su una sedia rossa. L’esemplificazione del prevalere della psicoanalisi è il dipinto nel quale il pittore dorme vegliato dalla madre contro l’orizzonte dominato da una nave misteriosa e travolgente come il Rex di Fellini. Senza indulgere al Surrealismo, Frongia dipinge sogni, visioni, sotto apparenza di allegorie dal significato inspiegabile, come in riferimento a un testo che non c’è, a un’apocalisse in Sardegna (di cui Frongia è originario) non a Pathmos. Cosa vogliano dire le due file di nove pesci davanti a uno specchio, apparsi al solito tronista in azzurro? Il titolo è Nella pancia della balena (Sogno di mia madre), e l’uomo azzurro nella poltrona è forse, didascalicamente, il pittore davanti allo spettacolo del sogno.
I confini tra il suo mondo e il nostro sono continuamente indicati in una Muraglia Cinese che delimita lo spazio del sogno. E cosa, se non sogni, possono rappresentare quadri in cui due bambini dormono con la testa appoggiata a pesci-cuscini all’ombra di cinque rose in prossimità di una torta, di una brocca d’acqua, e di ossa incrociate? O una donna folgorata al sommo di una scala? Complicate, indecifrabili iconografie in quadri imprescindibili che impongono una pittura aulica, una aspirazione al sublime nonstante che Frongia mortifichi deliberatamente la tecnica rinunciando a finiture virtuosistiche. Anche i riferimenti domestici in Frongia diventano solenni, generano una inedita mitologia. Che, d’altra parte, il pittore veda dentro, viene dichiarato in quell’Autoritratto come veggente, in cui un ramo occulta gli occhi di Frongia, che non può vederci più di quanto noi non riusciamo a vederne l’espressione. Ma egli sembra annunciarci il suo mondo interiore: nessuna concessione e nessuna indulgenza a fonti classiche, a iconografie già date, persino nelle composizioni più semplici, nei giovani accoppiati a torso nudo, in ombra e in luce, come nei genitori statuari su un piedistallo di marmo (I custodi), o seduti come su un sarcofago, pur negli abiti borghesi (Fatevi avanti).
Alcune allusioni alla pittura del Realismo magico, a Oppi inparticolare, o alla Nuova oggettività tedesca sono sottratte alla citazione per essere restituite a una inquietante verità contemporanea, molto difficilmente attinta da altri artisti forzatamente allegorici, illustrativi, di testa. A questo rischio, così frequente della nuova figurazione e negli epigoni del Surrealismo, Frongia riesce a sfuggire con l’elaborazione di immagini autenticamente automatiche, fotografia dell’inconscio, come nell’aspirazione annunciata dai surrealisti classici.
Ma il realista dell’inconscio Frongia non è surrealista e neppure neorealista. Egli trascrive le sue visioni, elabora una iconografia assolutamente inedita, non si lascia distrarre da un’inutile perfezione formale. La perfezione è nell’idea. La pittura segue. Fino alle immagini in negativo, per difetto di luce nell’obiettivo. Cosicché le figure escono da una penombra di crepuscolo con i contorni labili che mettono a dura prova la nostra potenza visiva, ma non la bontà e la compiutezza dell’idea pittorica. Insomma una pittura misteriosa e necessaria, che da una radice figurativa, nel rispetto dello specifico originale, approda a una dimensione intimamente concettuale, con una parabola che non ha paragone nella ricerca del nostro tempo. Per una trascrizione in poesia pittorica di una incontenibile nevrosi, anche più facilmente leggibile in soggetti ordinari e tranquilli come la adolescente dalle orbite in penombra (L’Ospite). E, nonostante l’aspirazione a un classicismo incorrotto tra Bellini e Raffaello, l’esito di Frongia appare piuttosto affine alla ricerca solitaria e anomala di un Lorenzo Lotto.
Autoritratto come veggente, 1989